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COSA È LA CULTURA CREOLA

Raphaël Confiant trad. in italiano di Monica Neri
COSA È LA CULTURA CREOLA

Conferenza pronunciata da R. Confiant , venerdi 7 maggio 2004, nella sede della DEE- Martinica,
davanti ai nuovi funzionari trasferiti alla Martinica.

Signore, Signorine, Signori,

È con grande piacere che ho accettato la proposta della DDE-Martinica di partecipare all’incontro di benvenuto dei nuovi arrivati nella vostra istituzione, che siano di origine martinicana o metropilitana.

Libero di scegliere sul soggetto da trattare, ho deciso di parlarvi oggi della lingua e della cultura creole perché non dubito che coloro che tra voi  arrivano qui per la prima volta  avranno notato che qui si parla un’altra lingua accanto al francese, il creolo, e che gli abitanti di questo paese hanno un modo di camminare, di muoversi, di ridere, di mangiare etc. che è particolare, e che chiamiamo cultura creola.                

Avrete notato che non ho detto cultura martinicana, ma cultura creola.  Perché? Eh, bene, perché se è vero che esiste una specificità martinicana, quest’ultima si inscrive in un insieme più vasto che comprende tutte le isole che parlano la lingua creola dell’arcipelago delle Antille (St Lucia, Dominica, Guadalupa, Haiti) e due territori continentali, la Luisiana, in America del Nord, e la Guyana, in America del Sud. Esistono ancora delle isole linguistiche di creolo a Cuba, St Domingo, St Croix, in Venezuela e a Trinidad. In effetti nel XIX secolo la lingua creola fu la lingua franca dei Caraibi, parlata da parecchi milioni di persone. Oggi, nei Caraibi, si valuta questa cifra intorno ai 9 milioni di persone.

Ma cos’è il creolo, vi domanderete? È un vernacolo, un gergo, un dialetto, una lingua? Da dove viene? Come si è sviluppato? Ha un avvenire nel mondo che si annuncia, caratterizzato dalla globalizzazione? È a tutte queste domande che mi accingo a rispondere davanti a voi oggi. Ho l’onore di parlare dopo Aimé Cesaire, che l’anno scorso si trovava allo stesso posto, e che è uno dei più grandi poeti dei nostri tempi. Ve ne riparlerò più avanti.

Prima di tutto, credo che sia importante definire il termine creolo e dissipare alcune ambiguità mantenute da un certo numero di dizionari francesi fino alla fine degli anni ’80. La parola creolo deriva dal latino “creare” che, come sapete, significa creare. La parola apparve dapprima nello spagnolo e nel portoghese perché, come sapete, Spagnoli e Portoghesi furono, dal 1492, i grandi scopritori e colonizzatori del Nuovo Mondo. Così la parola spagnola «criollo» e la parola portoghese «criolho» sono state forgiate all’inizio per designare i figli dei colonizzatori nati sul posto, nati nelle Americhe,  sia che fossero nati da donne europee, amerindiane o africane. Il termine designava dunque i discendenti dei coloni spagnoli e i figli meticci di questi ultimi per opposizione a questi stessi coloni nati in Europa, alle popolazioni autoctone (amerindiane, quindi) e ai Neri nati in Africa. Avevamo quindi tre tipi di popolazione nel XV e XVI secolo:

  • da un lato gli Amerindiani
  • dall’altro i colonizzatori  europei e i loro schiavi africani
  • infine i Bianchi, i Neri, i meticci dei Bianchi, dei Neri e degli Amerindiani nati nelle Americhe. È a questi ultimi, che sarebbero velocemente divenuti maggioritari, tanto nelle Antille che in America del Sud, che fu riservata la denominazione di «creoli».

La definizione dunque è molto chiara: «creolo» significa semplicemente «nato e cresciuto in America da genitori parzialmente o totalmente stranieri». In nessun momento il termine ha significato «Bianco di razza pura nato alle Antille Francesi» come ha per lungo tempo affermato il dizionario Larousse, per esempio. Innanzitutto perché i Bianchi di razza pura, supponendo che questa espressione abbia la minima scientificità, non furono molto numerosi per la semplice ragione che per un lungo periodo solo gli uomini emigrarono nelle Americhe. Era molto difficile per delle donne europee intraprendere un viaggio così rischioso, avventuroso, che poteva durare tra un mese e mezzo e due mesi, secondo i venti e le condizioni della nave. I coloni europei furono dunque obbligati ad unirsi a delle donne autoctone, poi a donne africane, originando questo formidabile metissaggio che caratterizza oggi le Antille e l’America del sud.

Ma il termine «creolo» non designa solo gli esseri umani: non è antropocentrico, perché ben presto sarà utilizzato per animali, piante e cose (materiali e immateriali). In altre parole, il termine «creolo» toccherà tutti gli ordini del reale, il vivente come l’inerte, e designerà, come per gli  umani, l’adattamento nel nuovo mondo di animali, piante o cose che non ne erano originarie. Avremo così, la canna creola (venuta dall’Asia), la banana creola (venuta dall’Africa), il maiale creolo, la vacca creola, la cucina creola, la musica creola, etc.. Questo processo di adattamento al Nuovo Mondo di esseri umani, animali, piante e cose è chiamato processo di creolizzazione. E’ un processo che è incominciato nel 1492 e continua ancora oggi, sotto diverse forme, in maniera ininterrotta.

Ma veniamo al processo di creolizzazione in terra francese. Vi ricordo che i Francesi arrivarono molto  tardi alle Antille, nel 1625 esattamente, nell’isola di St Christophe, chiamata oggi St Kitts, situata a Nord della Guadalupa. Gli Inglesi, d’altra parte, arrivarono nello stesso periodo e nello stesso luogo, seguiti un po’ più tardi da Olandesi, Danesi e Svedesi. Cosa succede tra il 1492, momento in cui Cristoforo Colombo mise il piede nelle Americhe, e il 1625? Cosa succede in questi 130 anni? L’America è divisa, per decisione papale, tra i soli Spagnoli e Portoghesi, e le altre potenze dell’epoca hanno il divieto formale di insediarvisi. Come dunque Francesi, Inglesi e Olandesi sono finalmente riusciti a trovare una breccia e hanno messo  piede su questi territori? Qui bisogna tornare un po’ indietro e sapere che prima dell’arrivo di Colombo l’arcipelago era abitato da due popolazioni apparentate ma differenti, entrambe venute dall’altipiano della Guyana. L’una, detta Arawak o Taino, installatasi circa sei secoli prima dell’arrivo di Colombo da Trinidad a Cuba, e la seconda, detta «Caraibe», arrivata un secolo prima di Colombo, che ha seguito lo stesso percorso, bruscamente interrotto a Portorico dall’arrivo dei conquistadores spagnoli. Gli Spagnoli avevano ben tentato di sottomettere i Caraibes, ma avevano fallito. Questo popolo di guerrieri intrepidi aveva inventato la guerra di guerriglia e mai gli Spagnoli riuscirono a colonizzare le Piccole Antille, cioé tutte le isole a sud di Portorico, dalle Isole Vergini a Trinidad, passando per la Guadalupa, la Dominica, la Martinica, St Lucia, St Vincent, Grenada, etc. E’ la ragione per la quale non si parla spagnolo in nessuna di queste isole. Ma la lunga resistenza a un popolo cosi potente come gli Spagnoli finí per fragilizzare i Caraibes, e di questo approfittarono Francesi, Inglesi e Olandesi, proponendo loro dei trattati di alleanza contro il comune nemico spagnolo. Fu la loro rovina! In effetti per questa breccia finalmente aperta, Francesi, Inglesi e Olandesi colonizzeranno le Piccole Antille, massacrando fino all’ultimo individuo dei Caraibes, esattamente come gli Spagnoli avevano fatto con i loro cugini Tainos nelle Grandi Antille. Per queste ragioni nelle Piccole Antille si parla francese, inglese, olandese, e due tipi di creolo, il creolo a base lessicale inglese e il papiamento, fatto di spagnolo e olandese, sul fondo di lingue africane.

I Francesi, dopo St Christophe nel 1625, si insediarono nel 1635 nella Guadalupa e in Martinica, poi, più tardi, a St Lucia e a Grenada. Ma chi si installa alle Antille? Che tipo di Francesi? Che lingua parlano? Bene, lo sapete senza dubbio, il francese che io parlo davanti a voi oggi non esisteva nel XVII secolo. All’epoca la Francia era divisa in due grandi zone linguistiche: la zona d’oil a Nord e la zona d’oc a Sud. In ognuna di queste zone ogni provincia parlava il suo proprio dialetto. Nella zona d’oil si trovava il normanno, il poitevin, il piccardo, il saintongeais… Nella zona a sud il bernese, il guascone, il provenzale… Quello  che diventerà a poco a poco il francese sarà formato a partire dal dialetto dell’Ile-de-France, il francien, da scrittori e cortigiani. Poiché la corte si trovava a Parigi, questa lingua, costruita dai letterati, sarà importa al resto del regno, ma il successo di questa operazione richiederà secoli e secoli. Pensate solo che nel 1789, per esempio, allo scoppio della Rivoluzione francese, solo un terzo dei Francesi parlava francese. Pensate che nel 1850 il popolino di Marsiglia parla esclusivamente provenzale. Pensate ancora che durante la guerra del ’14 – ’18 le truppe bretoni andavano spesso all’attacco senza compredere gli ordini dei loro ufficiali  francesi perché all’epoca il 90 % della Bretagna parlava solo bretone. La Francia non è divenuta realmente, interamente francofona che dopo la seconda guerra mondiale. Si tratta di ieri. Dunque, nel XVII secolo, i coloni sbarcano alle Antille e parlano soprattutto normanno, ma anche poitevin, piccardo, santogeneais… Provengono quasi tutti dalle provincie nord-ovest della Francia, molto pochi dalla zona d’oc, dal sud, dunque. Sbarcano e non hanno una lingua unificata, standardizzata da imporre facilmente ai  Caraibes e agli schiavi africani. D’altra parte la maggior parte dei coloni, a parte qualche cadetto di grandi famiglie, è illetterata in un’epoca  in cui è ancora lontana la scuola gratuita obbligatoria. È significativo che nell’anno stesso in cui i Francesi sbarcano in Martinica e in Guadalupa, il cardinale Richelieu, allora Primo Ministro, decida di creare l’Academie française, essenzialmente per mettere fine all’anarchia ortografica regnante e per comporre un dizionario di francese. Dunque immaginatevi i primi 50 anni della colonizzazione delle Antille, tra il 1625 e il 1670/80 e che sorta di cacofonia linguistica doveva regnare nelle nostre isole. Gli Spagnoli non hanno avuto questo problema - ed è senza dubbio il motivo per cui non c’è stato un creolo a base linguistica lessicale spagnola (ad esclusione del «palenquero» in Colombia) -  perché durante i primi trent’anni di colonizzazione solo i Castigliani erano autorizzati ad emigrare nelle Americhe. I Catalani, gli Andalusi, i Baschi e i Galiziani erano esclusi dal Nuovo Mondo e questo ha senz’altro favorito l’insediamento della lingua spagnola. Il francese, non poteva imporsi alle Antille nel XVII secolo perché… non esisteva ancora .

I coloni francesi del XVII secolo non disponevano dunque di una lingua unificata  che potessero facilmente imporre agli Amerindiani e agli schiavi neri.  Per queste ragioni apparve in un primo tempo un sabir (sorta di lingua tronca che permetteva la comunicazione sommaria tra genti che non parlavano la stessa lingua ) chiamato baragouin, che fu utilizzato come medium di comunicazione tra Caraibes e Francesi. Certi linguisti affermano che il baragouin avrebbe posto le basi della lingua creola. Poi, in un secondo tempo, ma là  rapidamente, in appena 50 anni, una nuova lingua,  il creolo, nato dal contatto tra Amerindiani, Bianchi e soprattutto Neri d’Africa.

Questa lingua è automaticamente la lingua materna dei primi bambini creoli, cioé nati sul posto, che essi siano bianchi o neri.  Per questo, quando si legge su certi dizionari francesi che il creolo è «un vernacolo parlato dai Neri delle Antille francesi» si tratta di una sciocchezza . Il creolo fu dall’inizio la lingua dei Neri e dei Bianchi nati alle Antille. E mai i Bianchi, anche quando si sono incredibilmente arricchiti grazie al commercio dello zucchero di canna  a partire dal 1670-80, diventando dei «Békés», hanno smesso di parlare creolo lungo tutto il corso dei tre secoli e mezzo di storia delle  Antille. Anche quando hanno promulgato il tristemente celebre «Code Noir» (Codice Nero) nel 1685, che stabilisce una sorta di  apartheid ante litteram tra le due razze,  non hanno per altro smesso di utilizzarlo. Bisogna dire -  e là veniamo alla cultura creola – che la piantagione di canna da zucchero ( detta «Habitation»  in territorio francese ) fu il crogiolo, la matrice stessa della cultura creola e che nello stesso tempo che la lingua, apparvero una cucina creola, una musica creola, una farmacopea creola, un’architettura creola, etc. La lingua creola non è che la colonna vertebrale di una cultura costruita e condivisa da Bianchi e Neri, e questo fino ai nostri giorni.  Per esempio, nella musica creola, si trova il «bel-air» che è di origine africana e la quadriglia o la mazurca creola che sono di origine europea.  Nei racconti creoli, si trovano i racconti di Compère Lapin, di origine africana, e le gesta di Ti Jean l’Horizon, di origine francese, etc. Quello che succede è che i Békés, una volta divenuti ricchi latifondisti, rinnegheranno questa lingua e la cultura che contribuirono a creare, rigettandola come una cosa da negri. Ma non fu che una posizione ideologica tutti i giorni contraddetta nel seno dell’Habitation in cui Bianchi, Neri e Mulatti (e Hindu e Cinesi dopo l’abolizione della schiavitù nel 1848) erano obbligati a lavorare insieme. Che non si veda alcun ecumenismo in quest’approcio. La schiavitù ha regnato ferocemente in questa isola e durante due secoli e mezzo i Neri vi furono considerati meno che delle bestie da soma. Sugli atti di vendita delle proprietà, i Negri  erano piazzati in fine di inventario dopo il bestiame e i mobili! La lingua e la cultura creola si sono dunque costruite nella violenza, nel dolore e nella negazione dell’umanità, ma esse testimoniano, che lo si voglia o no, della compenetrazione (qualche volta della compromissione) trisecolare tra Neri, Bianchi, Mulatti, Hindu, Cinesi e Sirolibanesi. Qui, per tre secoli, il razzismo e il rigetto di tutto ciò che era nero o africano furono istituzionalizzati.  Non bisogna dimenticarlo. Questo spiega bene certi comportamenti che alcuni di voi, che venite per la prima volta alle Antille, potranno giudicare aberrante, segnatamente una preoccupazione eccessiva del colore altrui o un bisogno di assomigliare ai Bianchi stirandosi sistematicamente i capelli, per esempio. Lo psichiatra martinicano Frantz Fanon ha spiegato molto bene tutto questo nel suo libro “Peau noir, masques blancs”.

Dicevo dunque che i Békés rinnegarono la lingua e la cultura creola alla fine del XVII secolo. Bene, nel XIX secolo fu il turno dei Mulatti d’adottare lo stesso atteggiamento. I Mulatti sono i figli degli uomini bianchi con le loro schiave nere e mai il contrario. Sono il frutto della subornazione, dell’intimidazione, spesso dello stupro. Ma, poco a poco, questo gruppo è riuscito a costituirsi in  gruppo autonomo, non veramente schiavo, né veramente libero: i famosi «uomini di colore liberi», e una volta che ebbero acquisito qualche diritto, si affrettarono a rigettare la lingua e la cultura delle loro madri a profitto di quella dei loro padri. Il gruppo mulatto – soprattutto a partire dalla fine del XIX secolo – fu quello che denigrò con  più costanza il creolo e la sua cultura, sopravvalutando, deificando, idolatrando la lingua e la cultura francese.  Ai loro occhi, non sapere parlare francese significava essere non civilizzato, un barbaro, un negro africano. A loro volta, i Mulatti si esercitarono al razzismo anti-negro, dimenticando che così essi rigettavano la metà di loro stessi. In seguito, quando all’inizio del XX secolo si vide apparire una piccola borghesia nera, questa rigetterà a sua volta il creolo e la cultura creola. Infine, verso la metà del XX secolo, Hindu, Cinesi e Syro-Libanesi fecero lo stesso. Cosa che mi fa dire che il creolo fu una lingua quattro volte rinnegata dai suoi propri genitori in tre secoli e mezzo di esistenza, una lingua quattro volte orfana. È per questo un vero miracolo che abbia potuto sopravvivere fino all’inizio del XXI secolo!

Ma veniamo ai fatti. Il creolo è un vernacolo, un gergo, un dialetto o una vera lingua, una lingua a giusto titolo? Devo dirvi innanzitutto che stranamente una lingua non si definisce assolutamente dal punto di vista linguistico. È curioso, è strano, eh sì, ma è così. Una lingua si definisce politicamente. Prima di venire al creolo, prenderò un esempio recente di cui i metropolitani qui presenti devono aver sentito parlare. Finchè la Cecoslovacchia fu uno stato unitario, non ebbe che una lingua, una sola, il ceco. E’ stato sufficiente che la parte slovacca domandasse e ottenesse l’indipendenza perché subito si vedesse apparire  la lingua slovacca.  Pertanto qualcosa è cambiato dal punto di vista linguistico dopo la divisione? No. I film cechi non sono sottotitolati in slovacco, nelle sale cinematografiche di Bratislava. I romanzi cechi non sono tradotti in slovacco, e quando un Ceco e uno Slovacco discutono, non hanno bisogno di interprete. Possiamo prendere anche l’esempio della ex-Yugoslavia. Finché era unita, vi si parlava una sola lingua, il serbo-croato. A l’INALCO si insegnava il serbo-croato. È stato sufficiente che Serbi, Croati e Bosniaci  si separassero  perché improvvisamente si cominciasse a parlare tre lingue differenti. Pertanto, dal punto di vista linguistico, come per i  Cechi e gli  Slovacchi, niente è cambiato. Dunque sì, il creolo è bene una lingua.  È una lingua a giusto titolo perché per tre secoli ha risposto senza problemi ai bisogni comunicativi della nostra società. A tutti i suoi bisogni comunicativi perché questa società era quasi interamente centrata sull’Habitation. Un grande linguista, Roman Jakobson, ha questa formula illuminante a proposito delle lingue.  Dice pressappoco  così: «Le lingue si differenziano meno per ciò che possono dire che per ciò che devono dire».  Bene, è vero che il potere centrale era francese, che la lingua ufficiale era il francese e che, come vi ho spiegato, non appena un’etno – classe montava di un gradino nella scala sociale martinicana, la prima cosa che si affrettava a fare era di gettare a mare il creolo e la sua cultura. Quindi tutto dipende dal punto di vista con il quale si giudica: dal punto di vista politico, è vero che il creolo è un vernacolo – o piuttosto si trova nella situazione di un vernacolo – ma è vero anche che dal punto di vista linguistico si tratta di una vera e propria lingua. Il creolo non ha alcun potere politico che lo sostenga, alcuna accademia ufficiale, non ha un’ortografia ufficialmente riconosciuta, ma dal giorno in cui, com’è il caso ad Haiti, sarà ufficialmente riconosciuto, ebbene, sarà una lingua come tutte le altre.  Ecco per le definizioni di «lingua» e «vernacolo».

Veniamo ora a «gergo» e «dialetto». Faremo presto: un gergo è un linguaggio legato ai mestieri (per esempio “il gergo degli informatici”) o di un particolare gruppo in seno alla società di cui per altro conosce e parla perfettamente la lingua.  Un «dialetto» è una varietà della lingua: in francese abbiamo il vallone, il quebecois, l’ex-pataouette (o francese dei «piedi-neri» d’Algeria), il francese meridionale, etc.. che sono dialetti di una sola e stessa lingua, il francese standard. Quindi sì, il creolo martinicano è un dialetto di una macro-lingua creola, come lo sono il creolo guadalupeano, di Santa Lucia o haitiano. Poco importa che questa macro-lingua sia virtuale, ció che importa è che vi è una larghissima  intercomprensione tra Martinicani, Guadalupeani, Santaluciani e Haitiani. Al contrario, non c’è intercomprensione tra un Francese, un Portoghese e un Italiano, anche se, all’origine, al momento della scomparsa del latino, le loro lingue non erano altro che un dialetto del latino. Da dialetti del latino le loro lingue sono divenute, nel tempo, delle lingue molto diverse. In effetti, bisogna vedere le cose in maniera dinamica, perché le lingue  non vivono in un vaso chiuso: esse subiscono il peso delle esigenze politiche, storiche, economiche, etc.. Per il momento i creoli sono dialetti di un macro-creolo virtuale, ma niente ci dice che fra 50 anni la situazione resterà la stessa. È assolutamente possibile che a breve il creolo santaluciano  e il creolo martinicano non siano più reciprocamente comprensibili  e diventino non  più dei dialetti di una stessa lingua, ma delle lingue apparentate, certo, ma molto differenti e soprattutto non più intercomprensibili, come lo sono oggi il francese e il portoghese. È assolutamente possibile!

Abbordiamo ora l’avvenire del creolo. Diciamo innnazitutto che una lingua che non si organizza, che non passa la barriera dello scritto, nella quale non si scrivano né libri né giornali, che non si insegna né a scuola né all’università, è una lingua condannata a breve termine. La galassia Mc Luhan non segna, come lo si crede a torto, la fine della galassia Gutenberg. Al contrario: lo scritto si moltiplica virtualizzandosi, dematerializzandosi.  I testi su Internet si comunicano cento volte più rapidamente che attraverso i libri. La email va mille volte più veloce che la lettera. Lo scritto diventa ancor più onnipresente oggi che ai tempi in cui vivevamo nella galassia Gutenberg.  Quindi per sopravvivere il creolo deve assolutamente divenire una lingua scritta. Su carta, certo, ma soprattutto su Internet. Qui, devo dimostrare una contro-verità: il creolo si  scrive… da due secoli e mezzo. La lingua si è costituita in 50 anni appena, nel XVII secolo. Bene, dalla metà del XVIII secolo, cioè appena un secolo più tardi, esistavano già dei testi a vocazione letteraria in creolo. Il primo data 1754.  È un poema d’amore scritto da un Bianco creolo di Santo Domingo, Duvivier de la Mahautière. S’intitola «Lisette quitté la plaine».  Il cognome del suo autore vi indica la sua origine: si tratta di un Bianco creolo, di un Béké. Eh si, benché avessero rinnegato  il creolo per presa di posizione ideologica, furono i primi a scrivere in quello che definivano «vernacolo dei negri». Sono ancora dei Béké che nel XIX secolo hanno lanciato la tradizione delle favole di Lafontaine tradotte in creolo: François Marbot in Martinica nel 1846, Paul Baudot in Guadalupa nel 1860, Alfred de St Quentin nel 1873, etc… Il primo romanzo in creolo data del 1885. S’intitola «Alfred Parépou, un Mulatre Guyanais».  In sintesi, si scrive e pubblica regolarmente in creolo da due secoli. Perché dunque, vi domanderete, ho posto la questione del passaggio del creolo ad una lingua scritta come una necessità urgente?  Semplicemente perché non è sufficiente mettere per iscritto una lingua perché essa diventi automaticamente una lingua scritta. La logica dell’orale è molto diversa dalla logica dello scritto, se non altro perché all’orale si è in presenza (o in contatto, se si è al telefono) del proprio interlocutore, e si può in ogni momento domandargli di spiegare le proprie affermazioni, mentre allo scritto scrittore e lettore non sono in contatto diretto. Così, sul creolo ha da sempre pesato la cappa di piombo dell’oralità, e gli scritti creoli sono sempre stati considerati minori, o ignorati, perché il francese aveva il monopolio della lingua scritta. Gli scritti creoli sono sempre stati scritti ludici, secondari, maldiffusi, e gli autori creolofoni non hanno mai preso coscienza fino a poco tempo fa della necessità di costruire una lingua creola scritta. Molti si sono accontentati di riprodurre o del creolo orale o del creolo imbastardito di francese. Per questa ragione all’Università delle Antille e Guyana la GEREC-F (Gruppo di Studi e Ricerca nello Spazio Creolo e Francofono) sotto la guida del professor Jean Bernabé, uno dei più eminenti creolisti mondiali, si è applicata non solo a organizzare la lingua, ma anche a costruire questo famoso scritto creolo, e questo dal 1973, cioè da poco più di trent’anni. Jean Bernabé è stato il primo, nelle Piccole Antille ed in Guyana, a proporre un sistema grafico autonomo per il creolo, un sistema in rottura con la grafia etimologica che regnava da due secoli. In effetti finché gli scrittori del creolo non considerarono il creolo come una vera lingua, ma come un vernacolo del francese o un dialetto, non c’era ragione di dotarlo di una grafia propria. Si scriveva allora il termine creolo secondo la sua origine francese cercando di rispettare al meglio  l’ortografia, già così complicata, del francese. Questa grafia etimologica aveva numerosi svantaggi: per prima cosa presupponeva che bisognasse innanzitutto saper scrivere in francese per poter scrivere in creolo; poi, era incapace di prendere a carico le parole di origine caraibe, africana o indiana. Come scrivere, in effetti, «watalibi», termine che designa una varietà di pesce in lingua caraibe, visto che quest’ultima non si scriveva?  Come scrivere l’africano «soukougnan», che designa uno stregone volante, o ancora il tamoul «matalon», che designaun tamburo rituale? Bisognava creare una grafia autonoma per il creolo, una grafia fonetico-fonologica, ed è quello che Jean Bernabé ha fatto. Ha redatto parecchie grammatiche molto importanti. Quanto a me, ho scritto cinque libri interamente in creolo tra il 1979 e il 1987, di cui tre romanzi.  Accanto a questo, la GEREC-F ha creato diversi diplomi di creolo durante gli ultimi vent’anni, e tutto ciò è confluito sette anni fa nella istituzione di diplomi di Laurea di creolo alla Facoltà di Lettere  dell’Università delle Antille e Guyana.  La GEREC-F è stata anche alla testa della  battaglia per la creazione del CAPES di creolo, che permette di recrutare insegnanti di creolo per la scuola secondaria. Evidentemente tutto questo enorme lavoro di trenta e qualche anno non è stato privo di difficoltà. La nostra strada  è stata disseminata di insidie di ogni sorta: abbiamo innanzitutto dovuto lottare contro la tradizione giacobina e centralizzatrice dello stato francese; in seguito contro i creolofobi martinicani, tutti coloro che, come vi ho spiegato, hanno rinnegato la lingua e la cultura creola;  contro i falsi creolofili soprattutto, tutti coloro che usano il creolo come una sinecura per fare delle carriere universitarie, per esempio, ma che se ne infischiano chiaramente del suo divenire.

In effetti, e concludo, il problema è più globale. Con la scolarizzazione di massa dei giovani martinicani, la diffusione della radio e della televisione, la facilità di andare e venire tra la Martinica e l’Esagono etc.. bene, la nostra società ha subito, al tornante degli anni 70, una sorta di mutazione linguistica. Il creolo, che era fino ad allora la prima lingua, la lingua materna  della stragrande maggioranza della popolazione, si è brutalmente ritrovato in secondo piano. Il francese è divenuto la lingua materna delle generazioni che sono nate a partire dal 1970 e questo ha già conseguenze drammatiche sull’evoluzione del creolo. Questi giovani locutori sono incapaci di esprimere giudizi di semplice correttezza grammaticale  a proposito di una frase in creolo. Per esempio, qualsiasi Francese dell’Esagono, che sia enarca o panettiere, vi dirà che la frase seguente: «i soldi a cui mio fratello mi ha dato» non è grammaticalmente corretta.  Al contrario i giovani Martinicani sono divenuti incapaci di distinguere un creolo scorretto e una frase come «lé kadav dé chien ka pit sur l’autoroute» sembrerà loro assolutamente normale. Lungi da me di gettare la pietra sui giovani! In effetti, la mia generazione – che chiamo la generazione intermedia tra quella dei veri creolofoni e quella dei giovani francofoni – la mia generazione ha una pesante responsabilità in questa lenta e apparentemente inesorabile degradazione della lingua creola. Quando nel 1971  la Sinistra ha liberato l’etere e le radio libere sono fiorite, abbiamo visto apparire radio interamente creolofone. A prima vista ciò poteva apparire come un plus per il creolo, perché fino ad allora la lingua creola era confinata alle canzoni popolari, ma fu una catastrofe, una vera catastrofe. E modero i termini!  Giornalisti non formati in creolo, ignorando i dati più elementari della creolistica, si sono messi a diffondere sulle onde un creolo misto di francese, spalmato di francese, un creolo che non sembra più niente se non del «petit-negre», facendo così più male che bene alla lingua che immaginavano, senza dubbio con sincerità, di promuovere. In effetti, non si erano resi conto che l’orale della radio e della televisione è un falso orale, che è più dello scritto oralizzato, che dell’orale spontaneo. I giornalisti leggono i loro fogli o il loro gobbo, non improvvisano. In creolo, ciascuno si è sentito libero d’improvvisare e si è giunti al risultato inverso di quello cercato. D’altra parte, personalmente, non ascolto più queste radio pseudo-creolofone talmente mi fa male ascoltare la lingua assurda che essi diffondono in antenna.

Cari amici, eccoci quasi arrivati al termine di questa chiacchierata. Che dire di più? Che nell’esercizio della vostra professione sarete, che lo vogliate o no, confrontati alla lingua e alla cultura creole. E là due atteggiamenti sono possibili: o fate finta di non vederle e le ignorate; o fate lo sforzo di andare verso l’Altro e cercate di apprendere la sua cultura al di là degli abituali cliché esotici. Il primo atteggiamento è, certo, il più facile, ma al termine del vostro soggiorno  non avrete imparato nulla di questo paese; il secondo è più difficile ma ben più gratificante e permetterà ad alcuni di stringere delle amicizie che continueranno oltre la durata del soggiorno in Martinica. So che la DDE non è indifferente al creolo. In effetti qualche volta, lungo i cantieri dei lavori stradali, installa dei cartelli che dicono: «Ni moun ka travay dèyè panno-a» (Ci sono persone che lavorano dietro questo cartello ). È un’eccellente iniziativa: convincete meglio e più velocemente un Martinicano in creolo che in francese, almeno chi ha più di 35 anni. Invito per questo i dirigenti della DDE a moltiplicare le iniziative di questo genere, a instituire una sorta di bilinguismo nell’impresa, tanto al livello dell’orale che dello scritto, perché il fine della nostra battaglia, di noi creolisti, non è affatto, come affermano certi  malintenzionati, di sostituire il francese con il creolo, ma di instaurare un rapporto di parità e di solidarietà tra queste due lingue. Sappiamo bene che il francese resterà sempre la lingua principale a livello dell’amministrazione, della giustizia, della scuola, ma chiediamo un posto per il creolo, un vero posto. Non uno strapuntino. Se quindi la DDE ha bisogno del GEREC-F  per organizzare corsi di creolo, siamo disponibili. Se avete bisogno di noi per tradurre cartelli e manifesti, anche in questo caso siamo disponibili. Numerosi servizi dello Stato fanno appello a noi in questo senso e la collaborazione funziona bene.

Signorine, signore e signori, vi ringrazio per l’ascolto.

Raphaël CONFIANT

(trad. Monica Neri non rivista dall’autore)

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